In un tempo in cui la libertà è spesso sbandierata come diritto assoluto, ci dimentichiamo che non esiste senza il suo contrappeso: la responsabilità. È un binomio necessario, che vale nella vita pubblica come nella progettazione, nella comunicazione come nella politica.
Viviamo in un’epoca segnata da polarizzazioni, da narrazioni ipersemplificate, da libertà brandite come scudi per evitare ogni forma di confronto o vincolo. Ma la libertà autentica – quella che non si consuma nel solipsismo – chiede di fare i conti con le conseguenze delle proprie scelte, parole, immagini.
Per chi lavora nel design e nella comunicazione, la questione è cruciale. Ogni messaggio lanciato nello spazio pubblico ha un peso, ogni progetto contribuisce a modellare immaginari, comportamenti, abitudini.
Essere liberi di creare non può prescindere dall’assumersi la responsabilità di ciò che si mette al mondo.
Cosa significa essere liberi oggi? In che modo possiamo progettare con consapevolezza, senza cedere al conformismo né all’autoreferenzialità?
In un momento storico in cui i confini tra espressione e propaganda, tra attivismo e marketing, tra etica e immagine si fanno sempre più sottili, serve più che mai un pensiero critico, radicato e insieme visionario.
Se la libertà è una fiamma, la sua ombra disegna forme meno celebrate, ma altrettanto necessarie: dubbio, cura, limite, interdipendenza.
Nel mondo del design e della comunicazione, la libertà viene spesso raccontata come uno spazio aperto, un gesto istintivo, uno slancio creativo. Ma c’è un’altra libertà, meno rumorosa, che si esercita nel tempo lungo della riflessione, nella complessità, nella responsabilità verso ciò che non controlliamo del tutto.
Il pensiero sistemico ci invita a osservare le conseguenze indirette delle nostre scelte. In un progetto, ogni decisione ha effetti che si propagano — spesso in modo non lineare — toccando chi non avevamo previsto, influenzando ambienti, comportamenti, simboli. Allenarsi a mappare queste diramazioni non è un esercizio di prudenza, ma un atto di immaginazione etica.
E poi c’è l’ascolto: della storia, del contesto, degli altri. Figure come Donatella Di Cesare o Byung-Chul Han ci ricordano che comunicare non è semplicemente esprimersi, ma esporsi all’altro. E che la parola, anche nel design, è un atto che ci lega.
In un’epoca in cui la retorica della libertà viene spesso usata per legittimare l’indifferenza o il disimpegno, recuperare il nesso tra libertà e responsabilità non è un vincolo, ma una scelta radicale di attenzione.
Forse progettare — davvero — significa proprio questo: tenere insieme la fiamma e la sua ombra. Immaginare, sì. Ma anche restare.
Da Oddly Ignited #4, Libertà e Responsabilità
G. Santoro
Coordinatore del biennio di “Graphic Desgin e Comunicazione”
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